BIENNALE ARTE 2022: LA PIÙ VISITATA DI SEMPRE
Inizialmente, la posticipazione causata dalla pandemia. Poi, l’inizio della guerra in Ucraina. Ancora prima, le proteste contro il cambiamento climatico, i movimenti Black Lives Matter, le rivendicazioni di Ni una menos e del movimento #MeToo.
Quest’anno, la Biennale di Venezia ha accolto lo sguardo artistico e sociale sugli sconvolgimenti che riguardano tuttə noi, volenti o nolenti (anche le persone che la accusano di essere troppo “politicamente corretta”, qualunque cosa significhi).
Il risultato? È la Biennale arte più visitata di sempre, con la cifra da capogiro di 800 000 biglietti venduti. Circa il 30% di questi sono stati venduti a studenti e studentesse: un dato che non possiamo non guardare con interesse. Le nuove generazioni non solo si sono interessate intensamente all’arte, ma hanno osservato una Biennale complessa e impegnata.
Il nome di questa edizione scelto dalla curatrice Cecilia Alemanni è “Il latte dei sogni”. Si tratta del titolo di un testo della scrittrice, illustratrice e scultrice inglese Leonora Carrington. Per spiegare questa decisione, Alemanni afferma che “L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano.”
Insomma, un ritorno agli studi sul post human di Jeffrey Deitch di fine anni Novanta, che riflettevano sul rapporto tra umanità e tecnologia e un’eventuale metamorfosi e fusione dei due mondi? In parte. Sicuramente, le carte in tavola sono cambiate: la maggioranza delle artiste che hanno composto questa discussione sono state donne che appartengono a Paesi non occidentali. Ma sì, il tema di fondo è simile: i corpi mutano e si rapportano in maniera plurale con la natura, con la tecnologia, ma anche – e forse di conseguenza – con i costrutti sociali, come il binarismo di genere e la mentalità colonialista. Tutto questo non converge necessariamente nell’orrore di un film di Cronenberg, ma può anche darci modo di sognare un mondo alternativo, in cui la storia è, proprio per completezza, fatta anche dalle donne.
Sognare, non combattere battaglie da ‘68: alle accuse di scarsa radicalità nell’affrontare i problemi sociali, Alemanni ha risposto che lə artistə “durante la pandemia hanno introiettato quello che stava capitando in modo intimista, diaristico, onirico, senza abbandonare il contenuto ma con metodologie meno ‘urlate’”. Insomma, sognare è una pratica umana, naturale, quasi fisiologica: un bisogno del corpo, che è tornato, in questa esposizione, centrale. Un corpo che sogna, che muta, che si riprende i propri spazi ove gli siano stati negati, ad esempio con l’apporto di artistə che provengono da culture indigene: Sheroanawe Hakihiiwe e Jaider Esbell. Insieme a loro, a riprendersi la propria voce sono state anche talentuose artiste nere come, fra le tante, Simone Leigh e Sonia Boyce. I nomi sono numerosi, e come sempre, in un evento così caotico e immersivo come la Biennale, è difficile tenere insieme i pezzi: ciò che rimane, a nostro parere, è l’emozione di vedere punti di vista nuovi, senza il pregiudizio di una tribuna politica o di una polemica giornalistica. Un mondo plurale, appunto, che non possiamo evitare di cominciare ad accarezzare.
Come scrive Alessia Musillo su Elle Decor: “questa favola cruda che si nutre di latte e di sogni non ha il sapere in tasca. E - sia chiaro - non vuole affatto averlo. Ma vista con gli occhi di un adulto la domanda è: anche noi cambiamo? E, se sì, come?”.