Il lavoro del creative director, tra comunicazione e arti visive: intervista a Samuele Savio
Un creative director è una figura che a oggi può ricoprire numerosi compiti per un’azienda e lavorare con i marchi più disparati per curarne comunicazione e reputazione. Proprio per le svariate sfaccettature di questa professione, abbiamo deciso di intervistare Samuele Savio, che fra i propri numerosi progetti di successo conta anche, insieme a Mauro Orlandelli, la creazione di Six.
Six si definisce come “contenitore in cui differenti realtà creative coabitano e collaborano, tutte collegate da uno stile cosmopolita e sofisticato.” Questo “contenitore” comprende varie attività, fra cui anche Sixième Bistrot, a pochi passi dalla Darsena a Milano: qui è dove Savio ci ha accolti per questa intervista e ci ha raccontato il suo lavoro e la sua brillante visione sul mondo della comunicazione e della creatività.
Cosa fa un creative director oggi?
SS: È una domanda che richiede una risposta un po’ vasta: può fare tante cose. Nel mio caso, dato che lavoro nell’ambito dell’arte, del design e dell’architettura, mi occupo di creare un vestito nuovo a un’azienda, un brand. In questo caso ho inventato proprio il brand, che è Six, che poi ha avuto lo spin off di Sixième e l’altro spin off di The sister hotel. Questo è il ruolo del creative director: quello di creare il brand piuttosto che mettere a posto un brand, un’azienda o una realtà già esistente.
Dunque, un creative director, per dare vita a un brand, quale preparazione dovrebbe avere?
SS: Devi avere tanta fantasia. La preparazione viene – secondo me – dopo. La preparazione accademica appartiene più a un art director: la differenza è un po’ quella che dicevo prima. L’art director è quello che ti sistema il vestito, mentre il creative director te lo cuce, te lo crea, come dice la parola stessa. Lo inventa di sana pianta. Oltre alla fantasia, ci deve essere la sensibilità insieme alla curiosità, ma queste sono cose banali. Deve esserci soprattutto un buon team, un buon giro di amici. Il trucco è circondarsi di persone che ti completino un po’ o comunque che ti stiano alla pari. Persone che, tu dici una cosa e loro ti rispondono subito “sì, ho capito”, poi ne dicono un’altra, e poi tu un’altra ancora. Quella è una cosa fondamentale. Io dico sempre alla generazione dopo la mia – che siete voi, fondamentalmente – di stare attenti alle frequentazioni. È fondamentale avere un entourage giusto per poter fare un bel lavoro di invenzione, perché comunque si tratta di invenzione.
Come si lavora all’immagine di un cliente? Quali sono le fasi di un progetto?
SS: Il progetto inizia da una domanda, fondamentalmente. Quando non me la fanno, chiedo che me la facciano. Dovete domandarmi: “dove andiamo”? A Venezia, a Torino, a Catanzaro, o in Austria… Se andiamo a Venezia, possiamo fare una tappa e andare a Trento, oppure andare a Riccione e prendere la barca. Comunque, fondamentalmente, il primo passo non dipende mai da me: in genere faccio sempre partire tutto dal mio interlocutore, da chi mi chiede una mano. Più l’interlocutore è debole, più è difficile trovare la strada giusta, perché se è indeciso e inizia a dire per esempio “Venezia sì, però potremmo andare anche a Trieste, o si potrebbe andare anche a Bologna”… Allora lì diventa difficile. È meglio uno che dica “io voglio andare a Trieste”, è meglio avere uno ostico, con cui magari litighi, ma che conosca la propria direzione. Con i miei clienti, mi diverto di più con quelli con cui litigo: vengono fuori progetti con più carattere. Una piccola discussione rende il progetto vibrante: lo vedi, è una cosa impercettibile, però noti che sta in piedi.
Personalmente, io eseguo solo una parte dell’intero lavoro: l’altra parte la fa l’interlocutore. Quello è fondamentale.
Quali sono gli step seguenti di un progetto? C’è una serie di passaggi che si dovrebbero avere in un progetto?
SS: Ognuno ha la sua teoria. Credo che la maggior parte si assomiglino, come le abitudini alla mattina. Bisogna fare una bella chiacchierata con chi ti sta chiedendo una mano. Poi, una bella pensata in solitudine, quasi non fosse un lavoro. Ti metti lì, ti fai un drink, metti su un disco, parli con la tua fidanzata, mangi un hamburger… E intanto pensi. Poi ti vengono delle idee, delle suggestioni, e con il tuo team inizi a parlare. Fai sedimentare un po’, inizi a cercare dei punti di riferimento e li guardi. Io in genere stampo tutto, perché ho una bella radice analogica, l’oggetto mi piace. Stampate le cose, le metto lì, le guardo con i miei – siamo in pochi, in genere siamo sempre due o tre –, si chiacchiera e si fanno dei moodboard. Poi si iniziano a interpretare i moodboard con dei segni fatti da noi. Poi c’è la prima presentazione, mettendo le mani avanti e precisando che si tratta di un pre-concept. Nelle ultime fasi, si tende a cercare di non farsi rovinare troppo il progetto. Lì è un fight: vai e incroci i guantoni, c’è della tensione. Questa è la parte più difficile, più di quella creativa: mantenere un’idea che rimanga più originale possibile.
Poi può anche essere che l’interlocutore si faccia avanti e dica “potremmo fare così”, e tu rispondi “ah, è vero”.
Non lo vedi come una sorta di “fallimento”, se l’input che fa scattare qualcosa viene dal cliente e non da te?
SS: No, assolutamente no. Sono forse anche più contento, perché non è mai frutto suo, ma frutto di un team. Se al cliente viene una bella idea, è perché abbiamo parlato insieme. È il frutto di una sorta di guida, una serie di discorsi fatti insieme.
Che ruolo hanno le arti visive in un progetto?
SS: Per il mio studio sono fondamentali. Noi non guardiamo – io, nella fattispecie – non guardo mai il lavoro che fanno gli altri, i miei colleghi. Il rischio è di scivolare su una scopiazzatura. Ad esempio, io ammiro molto OK-RM di Londra: lavorano molto nell’arte contemporanea, hanno una loro casa editrice, Inotherwords, che è stupenda… Io li ammiro molto, ma nelle prime fasi progettuali di una visual identity cerco di non farmi influenzare, anche se non sempre ci riesco. Come references vado un po’ a trovare qual è l’ambiente nel quale si sta parlando; da dove viene la sua storia; dove si vuole andare. Così inizio a scoprire cos’è stato quell’ambiente. Prendo l’esempio di Sixième, che è uno spin off di Six: non sapevo come chiamarlo. Volevo un suono come “six”… Così mi sono interrogato, poi ho pensato: visto che è un bistrot, e il bistrot nasce in Francia… In francese è venuto fuori “Sixième”. Sono andato a prendere la storia del bistrot, ma è una banalità. Non è che io sia andato a ricercare cose mirabolanti o film sui bar. Ho detto: il bistrot, dove nasce? In Francia. Non traduco “Six” in francese perché altrimenti è banale, e allora nasce “Sixième”.
Tutti quelli che conoscono questo posto, lo conoscono per Six. “Six, Sixième”, viene automatico.
Per la visual identity, io detesto i marchi. Mettere marchio e logo insieme è troppo vecchia scuola. Per Sixième, ho pensato di fare soltanto una bellissima scritta, usando un carattere francese. Il carattere francese più simbolico dal punto di vista storico è il Garamond, che è stato disegnato nel 1490. Io ho usato il primo Garamond disegnato. La particolarità è che ha la “S” con la pancia sotto più grande e quella sopra, la testa, più piccola. In Francia, durante l’art deco, giravano la “S” con la testa più grossa e la pancia più piccola. Allora io mi sono ricordato questo particolare da manuali di tipografia, e l’ho fatta così.
Che consiglio daresti a chi vorrebbe cominciare a lavorare nel campo della comunicazione?
SS: Lavorare prima di tutto sulla personalità, non avere paura di niente. Sembra una banalità, ma non bisogna avere paura degli errori. Non pretendere di essere sempre perfetti. Quello che vedo nella nuova generazione di progettisti – senza voler fare il guru – è una tendenza a cercare troppo il lavoro perfettino, risultando così un po’ confondibili. Negli studi nuovi, spesso non traspare la visione. Vuoi Instagram, vuoi Pinterest, su cui sei bombardato di immagini – tutte gradevoli –, ma inizia a diventare onanistico. Tu ti circondi di tutte immagini gradevoli, e il tuo goal è di assomigliare, entrare in una comunità. Se il tuo progetto lo metti su Pinterest vicino a quelli che ti piacciono e ci sta, tu sei già soddisfatto: ma ti perdi in mezzo agli altri. La tecnologia, certe volte, guida troppo questo processo ed appiattisce il risultato. C’è pochissima storia nei disegni e nei risultati finali, poca personalità e troppa precisione. La tecnologia – non sono contro la tecnologia, anzi – bisogna saperla sfruttare: se la si tratta come il fine e non come il mezzo, allora diventa tutto uguale. È tutto gradevole, è tutto alla moda, e si confonde tutto con il resto.
Quello che consiglio è prima di lavorare sulla personalità. Vuoi tagliarti i capelli corti corti, anche se sei una ragazza? Va bene. Vuoi tatuarti mezzo orecchio? Va bene. Vuoi vestirti in giacca e cravatta tutti i giorni – che è una provocazione anche quella? Va bene, fallo. Che problema c’è? Tira fuori quello che hai, senza la paura di farti accettare oppure no.
E il progetto può essere sbagliato. Sbaglia, una volta. Fai un progetto stupido, non finito. È uno: ne farai centomila. È questo atteggiamento qui che non si vede più. Meno manieristici, e più personali. E se devi citare, cita in maniera colta e non contemporanea. Non citare un contemporaneo.
Altrimenti si ricade nella scopiazzatura?
SS: Sì, in un secondo. Il lavoro risulta scopiazzato, anche se non lo è. È troppo chiaro il riferimento. Quindi il consiglio che aggiungo è: meno roba, non bisogna essere onnivori di lavoro. Se tu lavori sulla ricerca personale o della tua personalità, poi il lavoro lo fai pagare il doppio. Perché devi buttare fuori lavoro per comprarti il loft figo in centro? Meglio uscire fuori con dei progetti pazzeschi e farti pagare di più. Meno macchinetta, più storytelling. Se tu fai una foto, deve avere una serie di riferimenti dietro, che magari non cogli subito, ma senti qualcosa. La preparazione ci sta, ma un bell’errore è meglio che fare il compitino.
Una personalità che lavora nel mondo della comunicazione non può prescindere dai campi della storia, della moda, del design, degli eventi, della musica e delle arti visive. Samuele Savio incarna la figura del creative director che instaura un rapporto costruttivo, dialogante, aperto, quasi maieutico, verso chi gli richiede la creazione di una visual identity e l’ambiente che lo circonda. L’istinto, le relazioni e le idee devono essere affiancati a una solida preparazione – non necessariamente accademica. Preparazione significa anche lavoro sulla propria personalità, per avere un approccio non meccanico e omologante ai progetti creativi, cercando di pensare in maniera ispirata ma indipendente. Attenzione verso il presente ma rilettura fondamentale della storia; indipendenza ma scelta accurata delle proprie relazioni; lavoro sulla personalità ma abilità nel lavorare in team: questi sono gli equilibri di cui ci parla Savio in questa informale e approfondita intervista, formando un punto di vista chiaro, originale e da cui trarre – liberamente – ispirazione.